E' proprio una strana vita quella del lavoratore precario. Come lo yogurt, l'unica cosa di cui ha certezza è che il suo contratto ha i giorni contati e che inesorabilmente il suo lavoro presto o tardi raggiungerà la data di scadenza. Non sono qui per fare considerazioni politiche circa la condizione poco dignitosa in cui sono costretti a vivere molti giovani italiani, ma vorrei aggiungere una mia personale considerazione. Più che di una considerazione, si tratta di una domanda, forse retorica, a cui non credo ci sia bisogno di rispondere.
I precari della scienza, tutti quei giovani - e meno giovani - ricercatori che riempiono i laboratori italiani con tanta voglia di far bene, devono ogni giorno fare il conto con il loro futuro incerto. Anzi no, il loro futuro è certissimo, sanno perfettamente che il giorno x del mese y non avranno più un lavoro, ma il tutto è alimentato da speranze, più o meno illusorie, sul fatto che il contratto venga rinnovato o che subirà una trasformazione in un'altra tipologia più dignitosa o magari stabilizzante.
E poi ci sono situazioni strane in cui ti viene detto che è meglio sapere con certezza che tutto finirà piuttosto che vivere nel dubbio che dall'oggi al domani ti potrebbe arrivare una brutta notizia. Ti consolano dicendoti che almeno così hai il tempo di cercare delle alternative e, allo stesso tempo, puoi lavorare dando il massimo di te, perché sai che nulla potrà accadere prima della data di scadenza. E se provi a chiedere il perché, ti rispondono con lunghissimi giri di parole, che quello che fai è piuttosto inutile per poi subito correggersi e dire che il tuo "prodotto" non rientra nella nostra missione. E ti ripetono (parafrasando): però adesso che sai quando tutto finirà, puoi concentrarti solo sugli aspetti positivi, incanalare tutto il tuo entusiamo nel tuo lavoro, nel tuo laboratorio che sicuramente non chiuderà prima della scadenza, anche se quello che fai non serve.
Domando: come si fa a lavorare così?
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11 novembre 2010
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