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14 luglio 2010

La fine arte della decontaminazione

Ci sono parecchi modi di dire che si addicono al mio lavoro di questa settimana. Si potrebbe cominciare con un bel chi troppo vuole, nulla stringe per arrivare ad un chi rompe paga passando per un non è tutto oro quello che luccica. E' da lunedì mattina che stiamo "pagando" le conseguenze dell'esperimento fallito di cui vi ho già parlato. Non c'è nulla di male nel fallire un esperimento, anzi questo è proprio insito nella natura stessa dell'esperimento. Ci sono esperimenti falliti clamorosamente che hanno portato ad eclatanti scoperte (vedi l'esperimento di Michelson-Morley), altri che falliscono lasciando un sapore amore in bocca e tutto da rifare e altri ancora che oltre al retrogusto lasciano anche un conto da pagare. Il nostro fallimento, purtroppo, si colloca in questa terza ed ultima categoria.

Usare il fascio di particelle per far, accidentalmente, evaporare dell'oro in una camera a vuoto, ha quello spiacevole incoveniente di produrre oro e mercurio radioattivi in micro- e macro-polveri che hanno contaminato oltre alla camera a vuoto anche parte del bunker di irraggiamento. Grazie alla professionalità dei nostri tecnici di radioprotezione, alla faccia di chi vuole i lavoratori italiani del nucleare non degni di fiducia, la contaminazione è rimasta ben localizzata, confinata e, relativamente, facile da pulire.

Decontaminare significa rimuovere dalle superfici anche il più piccolo e infinitesimale granello di polvere radioattiva che, altrimenti, potrebbe ridisperdersi nell'ambiente o attaccarsi ai vestiti o alle mani di chi la toccasse. Per farlo serve un po' d'alcool, del cotone idrofilo e tantissima pazienza: si prende un pezzetto di cotone umido d'alcool, si strofina una piccola porzione della superficie da pulire molto lentamente per evitare di alzare polvere, poi si butta il cotone e si cambiano i guanti e si ripete quasi all'infinito. E qui mi viene in mente un altro detto popolare: con la calma e la pazienza hanno fatto... va beh finitelo pure voi...

Tutto questo di per sé sarebbe già sufficiente a farvi venire un esaurimento nervoso, ma per garantirsi un posto sicuro in manicomio, bisogna anche aggiungere i vari dispositivi di protezione individuale, al fine di svolgere il lavoro in completa sicurezza. E così dobbiamo travestirci come vedete nella foto: sovrascarpe al ginocchio, tuta in tyvek integrale con cappuccio, maschera anti-vapori e anti-polveri, tre paia di guanti in lattice e una sudata tipo sauna assicurata.

Una curiosità: per indossare correttamente la maschera e permetterle di fare tenuta stagna contro il viso, mi sono dovuto rasare completamente la barba, cosa che non facevo da anni e che per un paio di giorni mi ha reso irriconoscibile allo specchio.

Ps. mi permetto di pubblicare questa foto con i miei colleghi senza il loro consenso perché nessuno a parte loro stessi e il fotografo potrà mai identificarli!

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