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27 gennaio 2011

Memoria

Ricordo che era un week end di gennaio o febbraio 2002. Ero a Cracovia in Polonia con l'amico Teo per lo stage finale della tesi di laurea. Avevamo deciso di andare ad Auswitch, o meglio ad Oswiecim perché il primo è il nome tedesco mentre il secondo è quello polacco. Il bus di linea aveva portato due ragazzi spensierati a fare una gita, ma ha riportato a casa in serata due cuori gonfi che non avevano voglia neppure di sorridere.

Ricordo che quando siamo arrivati al museo, così chiamano i resti dei campi di concentramento e di sterminio, abbiamo avuto la fortuna che stava per iniziare una visita guidata; ci siamo accodati. La guida era un giovane polacco che parlava un perfetto inglese. Era troppo giovane per essere stato un protagonista del dramma, eppure nella sua voce c'era sempre un certo rancore quando parlava dei nazisti che qualche volta chiamava, per errore, tedeschi.

Della guida ricordo due cose in particolare: una sorta di motto che continuava a ripeterci e una scena. Il motto non era suo, ma dei nazisti: "Nulla deve andare sprecato" e si riferiva ai prigionieri dei campi. La scena era ambientata all'interno di una grossa sala, ci aveva appena mostrato due vetrine: una piena di valige con nomi scritti con il gesso e una con chilometri di capelli. Si gira e ci indica un cesto lontano dalle vetrine, non riusciamo a vederne il contenuto e lui ci dice: "I nazisti facevano bene ad aver paura dei nemici ebrei che giravano armati e sequestravano loro le armi appena entrati nei campi. Guardate pure con i vostri occhi se non ci credete, questo cesto è pieno di armi." Ci ha fatto avvicinare ed era piena di bambole di pezza, cavalli di legno e altri semplici giochi per bambini.

Ricordo che in mattinata abbiamo visitato il campo 1, quello con il cancello con la famosa scritta "Il lavoro rende liberi". Ci hanno detto che quello inizialmente era un campo di lavoro forzato, non tanto di prigionia e nemmeno di sterminio. Ogni prigioniero era catalogato, marchiato e persino fotografato; ci sono ancora migliaia di fotografie di ebrei che sono entrati lavoratori e non sono più usciti, nemmeno cadaveri.

Ricordo che ci hanno mostrato il tribunale in cui venivano giudicati i reati commessi all'interno del campo. Era all'aria aperta con un solo muro, quello dietro alle spalle del presunto colpevole, che in pochi minuti veniva giudicato e giustiziato.

Ricordo che dopo un panino al volo siamo andati al campo nuovo, quello in cui arrivava la ferrovia fin dentro le mura. La prima cernita avveniva lì, sulla banchina del treno: se eri troppo stanco, magro o affaticato ti dovevi accodare verso le docce, se eri sufficientemente in forma allora potevi andare nella tua baracca a dormire. Se quello del mattino poteva essere considerato un campo di lavoro, quello del pomeriggio era una fabbrica. I reclusi, ebrei ma non solo, erano sterminati su scala industriale. I nazisti scrivevano rapporti sull'efficacia dei gas utilizzati e sulla capienza dei forni. Ricordo che abbiamo visitato la baracca "medica", ovvero dove venivano effettuati esperimenti "medici" su cavie umane. Ricordo che mi colpì il fatto che esseri umani venivano esposti a raggi X per valutarne le conseguenze e che questi, totalmente inconsapevoli di quello che stavano subendo, erano contenti perché potevano stare seduti al caldo, da soli senza guardie.

Ricordo che il lunedì successivo, quando il nostro tutor ci ha domandato cosa avessimo fatto di bello nel week end, al sentire la nostra risposta si è incupito e ci ha confidato che quando ci va poi sta male per una settimana.

Ogni uomo dovrebbe far visita in uno di questi luoghi almeno una volta nella vita; solo così certe cose non accadranno più.

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